Che una nazione, dopo essersi assicurata che una grande impresa possa andare a vantaggio della comunità, la faccia realizzare a valere sul risultato di un contributo comune, nulla più di naturale. Ma la pazienza mi sfugge, lo riconosco, quando sento addurre a sostegno di tale risoluzione questa stupidaggine economica: "È del resto il mezzo per creare lavoro per gli operai."
Lo Stato apre una strada, costruisce un palazzo, raddrizza una via, scava un canale; con ciò, dà lavoro ad alcuni operai, è quello che si vede; ma priva di lavoro altri operai, e questo è quello che non si vede.
Ecco la strada in fase di costruzione. Mille operai arrivano tutte le mattine, se ne vanno tutte le sere, portano a casa il loro salario, ciò è sicuro. Se la strada non fosse stata decretata, se i fondi non fossero stati votati, questa brava gente non avrebbe trovato là né quel lavoro né quel salario; questo è sicuro, ancora.
Ma è tutto? L'operazione, nell'insieme, non comprendeva anche qualche altra cosa? Nel momento in cui il sig. Dupin pronuncia le parole sacramentali: "l'assemblea ha adottato", i milioni scendono miracolosamente su un raggio della luna nelle casse dei sigg. Fould e Bineau? Affinché il circolo, come si di dice, sia chiuso, non occorre che lo Stato organizzi l'incasso come la spesa? che metta i suoi gabellieri a caccia ed i suoi contribuenti alle tasse?
Studiate dunque la questione nei suoi due elementi. Pur constatando la destinazione che lo Stato dà ai milioni votati, non trascurate di constatare anche la destinazione che i contribuenti avrebbero dato - e non possono dare più - a quegli stessi milioni. Allora, capirete che un'impresa pubblica è una medaglia a due facce. Su una appare un operaio occupato, con questo motto: quello che si vede; sull'altra, un operaio disoccupato, con questo motto: quello che non si vede.
Il sofisma che io combatto in questo scritto è ancora più pericoloso, applicato ai lavori pubblici, perché serve a giustificare i lavori ed il spese più folli. Quando una ferrovia o un ponte hanno un'utilità reale, basta invocare quest'utilità. Ma se non se lo può, cosa fa? Si ricorre a questa mistificazione: "Occorre procurare del lavoro agli operai."
Detto ciò, si ordina di fare e disfare i giardini del campo di marzo. Il grande Napoleone, lo si sa, credeva di fare opera filantropica facendo scavare e riempire canali. Diceva anche: "Che importa il risultato?" Occorre vedere soltanto la ricchezza sparsa fra le classi operaie.
Andiamo in fondo alle cose. Il denaro ci illude. Chiedere il contributo, sotto forma di denaro, di tutti i cittadini ad un'opera comune, è effettivamente chiedere loro un contributo in natura: poiché ciascuno di loro si procura, con il lavoro, la somma della quale è tassato. Ma, che si riuniscano tutti i cittadini per fare loro effettuare, per prestazione, un'opera utile a tutti, ciò potrebbe comprendersi; la loro ricompensa sarebbe nei risultati dell'opera stessa. Ma che dopo averli convocati, li si obblighi a fare strade dove nessuno passerà, palazzi che nessuno abiterà, e questo con il pretesto di procurare loro lavoro: questo sarebbe assurdo e, certamente, potrebbero fondatamente obiettare: di questo lavoro non sappiamo che fare; preferiamo lavorare per nostro conto.
Il metodo che consiste nel fare contribuire i cittadini in denaro ed non in lavoro non cambia nulla di questi risultati generali. Soltanto, con quest'ultimo metodo, la perdita si distribuisce su tutti. Con il primo, coloro che lo Stato occupa sfuggono alla loro parte di perdita, aggiungendola a quella che i loro compatrioti devono già subire.
C'è un articolo della costituzione che dice:
"La società favorisce ed incoraggia lo sviluppo del lavoro... mediante l'attivazione da parte dello Stato, dei dipartimenti e dei comuni, di lavori pubblici atti ad impiegare le braccia disoccupate."
Come misura temporanea, in un periodo di crisi, durante un inverno rigoroso, quest'intervento del contribuente può avere buoni effetti. Agisce nello stesso senso delle assicurazioni. Non aggiunge nulla al lavoro né al salario, ma prende lavoro e salari in tempi ordinari per distribuire, con una perdita è vero, in epoche difficili.
Come misura permanente, generale, sistematica, non è altro che una mistificazione rovinosa, di una impossibilità, una contraddizione che mostra quel poco di lavoro stimolato che si vede, e nasconde il moltissimo lavoro impedito, che non si vede.
Lo Stato apre una strada, costruisce un palazzo, raddrizza una via, scava un canale; con ciò, dà lavoro ad alcuni operai, è quello che si vede; ma priva di lavoro altri operai, e questo è quello che non si vede.
Ecco la strada in fase di costruzione. Mille operai arrivano tutte le mattine, se ne vanno tutte le sere, portano a casa il loro salario, ciò è sicuro. Se la strada non fosse stata decretata, se i fondi non fossero stati votati, questa brava gente non avrebbe trovato là né quel lavoro né quel salario; questo è sicuro, ancora.
Ma è tutto? L'operazione, nell'insieme, non comprendeva anche qualche altra cosa? Nel momento in cui il sig. Dupin pronuncia le parole sacramentali: "l'assemblea ha adottato", i milioni scendono miracolosamente su un raggio della luna nelle casse dei sigg. Fould e Bineau? Affinché il circolo, come si di dice, sia chiuso, non occorre che lo Stato organizzi l'incasso come la spesa? che metta i suoi gabellieri a caccia ed i suoi contribuenti alle tasse?
Studiate dunque la questione nei suoi due elementi. Pur constatando la destinazione che lo Stato dà ai milioni votati, non trascurate di constatare anche la destinazione che i contribuenti avrebbero dato - e non possono dare più - a quegli stessi milioni. Allora, capirete che un'impresa pubblica è una medaglia a due facce. Su una appare un operaio occupato, con questo motto: quello che si vede; sull'altra, un operaio disoccupato, con questo motto: quello che non si vede.
Il sofisma che io combatto in questo scritto è ancora più pericoloso, applicato ai lavori pubblici, perché serve a giustificare i lavori ed il spese più folli. Quando una ferrovia o un ponte hanno un'utilità reale, basta invocare quest'utilità. Ma se non se lo può, cosa fa? Si ricorre a questa mistificazione: "Occorre procurare del lavoro agli operai."
Detto ciò, si ordina di fare e disfare i giardini del campo di marzo. Il grande Napoleone, lo si sa, credeva di fare opera filantropica facendo scavare e riempire canali. Diceva anche: "Che importa il risultato?" Occorre vedere soltanto la ricchezza sparsa fra le classi operaie.
Andiamo in fondo alle cose. Il denaro ci illude. Chiedere il contributo, sotto forma di denaro, di tutti i cittadini ad un'opera comune, è effettivamente chiedere loro un contributo in natura: poiché ciascuno di loro si procura, con il lavoro, la somma della quale è tassato. Ma, che si riuniscano tutti i cittadini per fare loro effettuare, per prestazione, un'opera utile a tutti, ciò potrebbe comprendersi; la loro ricompensa sarebbe nei risultati dell'opera stessa. Ma che dopo averli convocati, li si obblighi a fare strade dove nessuno passerà, palazzi che nessuno abiterà, e questo con il pretesto di procurare loro lavoro: questo sarebbe assurdo e, certamente, potrebbero fondatamente obiettare: di questo lavoro non sappiamo che fare; preferiamo lavorare per nostro conto.
Il metodo che consiste nel fare contribuire i cittadini in denaro ed non in lavoro non cambia nulla di questi risultati generali. Soltanto, con quest'ultimo metodo, la perdita si distribuisce su tutti. Con il primo, coloro che lo Stato occupa sfuggono alla loro parte di perdita, aggiungendola a quella che i loro compatrioti devono già subire.
C'è un articolo della costituzione che dice:
"La società favorisce ed incoraggia lo sviluppo del lavoro... mediante l'attivazione da parte dello Stato, dei dipartimenti e dei comuni, di lavori pubblici atti ad impiegare le braccia disoccupate."
Come misura temporanea, in un periodo di crisi, durante un inverno rigoroso, quest'intervento del contribuente può avere buoni effetti. Agisce nello stesso senso delle assicurazioni. Non aggiunge nulla al lavoro né al salario, ma prende lavoro e salari in tempi ordinari per distribuire, con una perdita è vero, in epoche difficili.
Come misura permanente, generale, sistematica, non è altro che una mistificazione rovinosa, di una impossibilità, una contraddizione che mostra quel poco di lavoro stimolato che si vede, e nasconde il moltissimo lavoro impedito, che non si vede.
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